Dal veneto: di antiabortisti, temi etici e autogestione della propria salute

Qualche considerazione sulla discussione tenutasi in consiglio regionale del veneto in merito alla proposta di legge del Movimento per la “vita”:
da “aborto”, a “temi etici” sempre di biopotere sessista si tratta!
La notizia è rimbalzata un po’ ovunque. La mattina del 12 luglio davanti alla sede del consiglio regionale di Venezia si sono radunate una cinquantina di donne e uomini, di diverse realtà associative e di movimento, dal collettivo femminista e lesbico Vengo Prima, alla CGIL, passando per l’UDI: dopo un’attesa durata 8 anni il consiglio regionale si è trovato a discutere la Proposta di Legge di Iniziativa Popolare n3. Questa PDL, che intendeva “regolamentare le iniziative mirate all’informazione sulle possibili alternative all’aborto”, era stata presentata nel 2004 da volontari del Movimento per la “vita” che avevano raccolto circa 24.000 firme nel tentativo di far entrare di fatto, in carne ed ossa, i loro discorsi fondamentalisti all’interno dei consultori, dei reparti di ginecologia e negli ospedali tutti.
Il 18 luglio questa proposta di legge è entrata in aula. Nonostante il parere avverso dell’ordine dei medici, dell’Ufficio legislativo della Regione (che rilevava soprattutto elementi di incompatibilità con il rispetto della privacy) e nonostante un’assemblea regionale di donne, creatasi in difesa della 194, che, oltre a un lavoro di controinformazione, contro questa legge aveva organizzato una grande manifestazione a Venezia nell’ottobre del 2006.
Durante la discussione in aula questa legge, da un attacco degli antiabortisti alla libera autodeterminazione delle donne, si è trasformata in un lasciapassare alla giunta regionale che ora potrà e dovrà decidere come e quando far entrare negli ospedali del veneto “chiunque abbia qualcosa da dire” (per citare le parole di uno dei consiglieri). Da una legge specifica di fatto contro l’aborto, ci troviamo infatti ora di fronte ad una legge che ammette la “Promozione dei diritti etici e della vita nelle strutture sanitarie e socio-sanitarie e nei consultori”. Che cosa è successo? Dopo aver restituito le discussioni datesi in consiglio regionale, proverò ad aprire alcune piste di riflessione.
Nello specifico, il testo della PDL n 3 del “Movimento” per la “vita” pretendeva nel suo art.1 denominato – Pubblicità- che nei reparti di ginecologia e di ostetricia venissero affissi i materiali informativi dei “movimenti e delle associazioni legalmente riconosciute aventi come finalità l’aiuto alle donne in difficoltà orientate all’interruzione della gravidanza”; l’art. 2 chiedeva inoltre che questi entrassero fisicamente dentro i consultori, nei reparti, nelle sale d’aspetto degli ospedali ad “espletare il loro servizio di divulgazione”. L’articolo 3 infine esigeva ripercussioni per i dirigenti ed il personale sanitario che avessero ostacolato tale “divulgazione” arrivando fino all’esigere la “revoca della pratica degli interventi di aborto volontario nelle strutture inadempienti”.
Nell’accompagnare e nel sostenere questa proposta i ben noti discorsi contro l’autodeterminazione delle donne, criminalizzanti e paternalisti, si sono susseguiti in aula. Come le preghiere dei volontari del movimento per la “vita”, gli unici “cittadini” ammessi ad entrare nella sede del consiglio regionale. Esemplare è a tal proposito ciò che ha dichiarato il consigliere Dario Bond (pdl) “Conosciamo tante donne che hanno avuto passaggi di questo tipo (un’ivg!). E c’è una cosa che accomuna queste storie, il pentimento, il pentimento, il pentimento. Che rode dentro in maniera particolare come fosse un trapano delle cellule umane e emozionali. E condiziona la vita di queste persone”.
Era trasversalmente risaputo che l’attacco diretto all’IVG non sarebbe riuscito a passare: l’art. 1 della PDL è infatti stato bocciato dall’aula ma, pur di non cestinare la PDL, alcuni consiglieri hanno provato a spostare il piano del discorso. Vari emendamenti son stati proposti; quello che ha avuto il sostegno dell’aula (con l’eccezione di rifondazione ed idv) è stato quello scritto dal consigliere Padrin, che ha più volte rivendicato in aula la “democraticità” della propria proposta: “abbiamo cittadini che hanno proposto di poter esercitare il loro diritto di manifestare nelle strutture i loro punto di vista, i loro valori. Noi cosa facciamo in questa legge.. ampliamo questo diritto. A tutti quei cittadini che vogliono manifestare le loro opinioni su dei temi etici e legati alla questione della vita. Garantiamo a tutti tutti i diritti”.
Già questo intervento mostra la subdola ambiguità con cui la “retorica dei diritti” è stata usata come lasciapassare per imporre, come universale e autorevole, una visione di parte: la solita “democraticità” di una vuota “libertà di espressione” spacciata per sostenere l’imposizione di una certa visione del mondo (quella mortifera del movimento per la “vita”). Come se si possa ancora credere che i diritti sono qualcosa di neutro e di per sé positivi e non invece una limitata concessione di riconoscimento sociale da parte dello Stato, frutto di un preciso rapporto di forza che ne determina i contenuti e le condizioni (non credere di avere dei diritti si era detto decenni fa..).
Ma l’elemento più rivelatore dello spostamento nel discorso che questo accordo bi-partisan compire viene dall’intervento di Laura Puppato del pd che, dichiarandosi favorevole all’approvazione dell’emendamento, ha sostenuto “Il dibattito di questi giorni ha anche tolto il velo a qualcuna delle obiettive necessità che nascondono le lacune del nostro veneto. Noi abbiamo il diritto e dovere di preoccuparci della prevenzione, di come e quali ragioni attengono al fatto che così tante migliaia di donne del nostro veneto decidono comunque di rinunciare alla maternità. A noi compete soprattutto questa parte. Dietro a una scelta di questo genere ci sono questioni di tipo economico, sociale, certamente questioni di carattere informativo e culturale. Noi dobbiamo intervenire su tutte e 3 (…) per riuscire a capire quali sono le ragioni che portano le donne e le famiglie a decidere un atto di tale gravita nel nostro veneto (..) Non possiamo avere tale percentuale di donne che lavorano e decidono comunque di impedirsi una gravidanza”.
La libera autodeterminazione viene in queste parole annientata, le donne vengono per l’ennesima volta riprodotte come popolazione caratterizzata dalla maternità e tale legge si rivela per quello che è: governo biopolitico e sessista delle forme di vita.
Ripetutamente, lungo il dibattito, la scelta di avvalersi o meno dell’ivg è stata attribuita al soggetto donna-madre oppure all’entità coppia e famiglia, mai a una donna come singola. La signora Puppato ha inizialmente colto l’occasione del tema di dibattimento in aula per per mostrare come la legge 194 non sia pienamente attuata in Veneto portando, tra gli altri, dati sull’elevato numero di ginecologi obiettori presenti sul territorio e sulla scarsità di consultori presenti in rapporto al numero di abitanti. Tale denuncia è stata però mirata a sostenere una rappresentazione delle donne solo in quanto mancanti, in quanto non-madri. Non si è riconosciuta quella molteplicità di relazioni in cui una persona può tessere il proprio quotidiano: tra queste, la relazione genitore-figli* e/o la relazione con un partner sancita dal contratto matrimoniale, sono solo una delle possibili e non, come si è preteso dire, le uniche legittimate ad avere senso e ad esprimersi nello spazio pubblico. Invece di operare per eliminare quegli elementi che di fatto depotenziano le quotidianità di chiunque abita in Veneto, tra cui l’ormai generalizzata assenza di un reddito fisso e continuativo, si è preferito aprire ad un’ulteriore normazione e normalizzazione delle condotte e delle scelte di ognun*. In questo contesto non possiamo limitarci a denunciare l’ennesima infamia operata dal partito democratico.
 Siamo in attesa di vedere quale regolamento verrà emanato dalla giunta (che, ricordiamolo è un organo esecutivo e non più legislativo), quali associazioni verranno autorizzate ad entrare negli ospedali e nei consultori, in quali luoghi specifici, secondo quali modalità e soprattutto quali restrizioni verranno sancite ai contenuti. Le premesse non sono per nulla incoraggianti.
L’occasione che ci viene però ora aperta è quella di dichiarare a gran voce, da subito, che decisioni legislative come questa svelano la natura biopolitica di queste istituzioni: questa legge rende di fatto palese il solitamente celato stretto legame tra biomedicina, normalizzazioni, messa a lavoro “culturalizzata” dei corpi e dei desideri (cos’altro è altrimenti pretendere che vi siano più madri figlianti?). Rende di fatto palese che le pratiche bio-mediche che vengono, o non vengono, realizzate negli ospedali italiani non sono “naturalizzate” ed auto-evidenti come pretendono dirci: vi sono degli elementi “valoriali”, per citare i consiglieri, che determinano appunto quali, tra le pratiche possibili, siano o meno considerate legittime. Dalla modalità in cui ad una donna è consentito partorire in un ospedale pubblico, al modo in cui ci è consentito morire, guarirci, placare il dolore. È terreno di pratica politica.

Quello che mi preme quindi domandarci è come agire, a partire da questo rinnovato contesto e con questa consapevolezza.

Nel 1980 Michel Foucault interveniva pubblicamente sull’opportunità o meno di difendersi durante un processo. Scrive un breve testo che credo sia però anche una suggestione più ampia che esorta a pensare i nostri rapporti con le istituzioni: “evitiamo innanzitutto il problema del riformismo e dell’anti-riformismo. Non dobbiamo prendere in carico le istituzioni che hanno bisogno di essere trasformate. Noi dobbiamo difenderci al punto che le istituzioni siano costrette a riformarsi. L’iniziativa deve dunque venire da noi, non sotto forma di programma ma sotto forma di messa in discussione e sotto forma di azione. Non è perché ci sono delle leggi, non è perché ho dei diritti che sono abilitato a difendermi; è nella misura in cui io mi difendo che i miei diritti esistono e che la legge mi rispetta(…) Difendersi richiede un’attività, degli strumenti e una riflessione..”, edito in “Stratégie judiciaire. Face à la répression il n’est pas interdit de se défendre”, Courant alternatif, mai 2012).
Una riflessione che prenda in considerazione ad esempio l’accesso all’ivg e alle forme contraccettive anche a donne che sono dichiarate, dalla legge italiana, illegali sul territorio nazionale, che si dia il tempo di ascoltare e tenere conto dei differenti significati che assumono l’ivg e le forme contraccettive nella vita di ognuna (anche in base all’età), che si ricordi che l’ivg e le forme contraccettive sono delle risorse sì, ma ambigue.
Il consultorio è stata considerata, e in parte lo è, una “conquista” del movimento femminista, anche se già da subito si è rivelata nella sua problematicità. Poco dopo l’approvazione della legge 405/1975 che istituisce i “Consultori familiari”, alcuni collettivi femministi occuparono la sede dell’Istituto di Medicina Preventiva a Bologna.
Il loro documento ne spiega le ragioni: “Uno degli obiettivi del movimento femminista era la pratica del self-help e dell’autogestione, ma dopo l’entrata in vigore della legge sui consultori le compagne che vi si trovano all’interno fanno solo volontariato e non hanno nessun potere decisionale rispetto alla struttura e perciò nessuna incidenza politica. Noi rifiutiamo i consultori perché, lungi dall’essere una struttura realmente ed efficientemente al servizio delle donne si configura sempre più come strumento di controllo capillare su di noi e sul sociale. Infatti, al processo di ristrutturazione del capitale, che si attua con l’introduzione del lavoro a termine, del lavoro precario, del lavoro decentrato, corrisponde una risposta istituzionale in termini di servizio-controllo. E’ in questa logica che il consultorio non si slega da un discorso più in generale sui servizi e in particolare quelli sanitari. Infatti, all’interno di questi il controllo va dalla schedatura sulla vita privata delle donne (famiglia,interessi politici, rapporti,condizione economica, uso di stupefacenti) al potere di decidere quali farmaci prescrivere. Tutto questo fa di noi (lavoratrici precarie, studentesse fuori sede,”non garantite in genere”) oggetti di ristrutturazione e di controllo, mentre noi rivendichiamo il nostro essere soggetti politici e forza “eversiva”. Ed è per questo che noi non intendiamo entrare in queste strutture per migliorare e potenziare il servizio dei consultori.”
Potrebbe sembrare paradossale recuperare ora un testo che mette chiaramente in discussione l’istituzione consultorio; ora che, tra le politiche di austerity, e gli attacchi che in più regioni d’Italia vengono mossi contro queste strutture, sembrerebbe più sensato indirizzare gli sforzi per chiedere maggiori risorse, senza perdersi in troppe riflessività.
Ciò che può diventare problema oggi è il rivendicare risorse senza al contempo darsi modo per mettere in comune i saperi sui nostri corpi e renderli intelligibili nello spazio pubblico; senza condividere l’esperienza e l’efficacia delle pratiche che mettiamo alla prova e pensiamo nei nostri quotidiani; senza discutere assieme le contraddizioni in cui siamo immerse in quanto in possibile “forzata” relazione con certe strutture bio-mediche. Si tratta, al solito, di de-individualizzare le scelte e creare spazi di auto-organizzazione.
Non che non lo si stia già facendo, anzi, e belle e importanti esperienze hanno e stanno attraversando l’Italia in questi anni: diamoci occasione di incontrarci, ascoltare e far proliferare i preziosi saperi che nelle consulterie autogestite, negli sportelli infosex, nelle occupazioni sparse per l’Italia si stanno conquistando.
 qualche link:
http://save194lazio.wordpress.com/
http://consultoriautogestita.wordpress.com/
http://collettiva.blogspot.it/2009/03/e-nata-unaltra-consultoria-bologna.html
http://ogo.noblogs.org/
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