zoo project
bilal berreni è morto a detroit, qualche mese fa. bilal berreni, 23 anni, quando aveva quindicianni aveva inziato a riempire i muri del quartiere in cui era nato, a parigi, da genitori algerini.
si diceva artista, e aveva avviato un progetto che aveva chiamato zoo project. l’aveva pensato come un progetto collettivo, ma si è ritrovato da solo a portarlo avanti.
del suo lavoro a parigi, così parlava, mettendo in guardia dal rischio di lasciar catturare la street-art nei processi di gentrificazione intellettualoide.borghese che stanno toccando certi quartieri delle metropoli europee:
“non sono un decoratore urbano, e soprattutto non voglio rendere la città più gradevole. certi artisti di strada che si lanciano oggi hanno un approccio molto colorato, attenuato e poetico; realizzano delle opere che non disturbano e interrogano nessuno. contentarsi di considerare la strada come un semplice supporto, come uno strumento tra gli altri, non ha alcun interesse. non sputo sul lato estetico, ma non deve mangiare il resto. per me, questo tipo di lavori è un po’ l’equivalente dello sviluppo sostenibile in ecologia, di quel ‘green washing’ ipocrita che agisce solo sulla forma invece che sul fondo. io cerco di fare il contrario».
nel 2011 era poi partito per la tunisia. e aveva finito per riempire tunisi, l’avenue burgiba, con i ritratti dei “martiri” della rivoluzione.
“quando sono arrivato, ero un po’ perso. fuori questione dipingere i muri senza chiedere l’opinione agli abitanti, di impormi davanti ad una cultura che non conoscevo così come avrei voluto. allora sono restato agli angoli, discreto, aspettando di capire quale poteva essere il mio ruolo. prima di dipingere, volevo discutere, dialogare, farmi accettare. è nel quartiere di hafsia che lo scatto si è prodotto: incontri fertili con giovani e artigiani, amicizie, incoraggiamenti. qualche ragazzo del quartiere mi ha parlato del loro amico mohammed hanchi ucciso da due “proiettili volanti” quando non aveva neanche 20 anni. altri hanno rincarato: dovevo rappresentare il loro compagno “hanch”, loro fratello, il loro amico scomparso. grazie a loro, ho conosciuto la sua famiglia, ho discusso con i suoi amici, ho capito che i morti della rivoluzione dovevano essere il soggetto delle mie creazioni. perché ogni persona mi spiegava, a suo modo: “non devono sparire, dimenticarli sarebbe ucciderli una seconda volta”. ad oggi ho dipinto una quarantina di martiri, a dimensioni reali. hanchi, certo, mohammed bouazizi, ugualmente, colui che tutto il mondo mi chiede, ma anche dei martiri meno “conosciuti”: aamer fatteh, moez ben slah, ayoub hamdi, faiçel chetioui, mersbah jwerhi, rabii boujid, e molti altri ancora. erano falegnami, professori, venditori ambulanti, disoccupati.. vivevano a tunisi, kasserine, sidi bouzid o gafsa. persone ordinarie che non meriterebbero più che un altro di lasciare la loro vita sull’altare della rivoluzione. spero, col tempo, di rappresentarli tutti. dei 236 martiti “ufficiali” (secondo il ministero della salute tunisino), non trovo ancora fotografie, indicazioni per rappresentarli. è un lavoro di formica, ma passionante. ai miei occhi, queste figure non sono immagini morte, fantasmi celebri post-mortem. non appartengono ad un passato fantasticato, rimpianto. sono figure del presente, compagni di lotta. se li dipingo, se mi permetto di rappresentarli, di esporli nelle manifestazioni, è perchè sono convinto che la scomparsa dei ricordi segnerebbe la fine della speranza. così come i tunisi si battono pechè i loro assassini – gli snipers, i datori dell’ordine, i manganellatoti – siano giudicati e sanzionati rapidamente (rivendicazione restata lettera morta per ora), cerco, a mio modo, di ricordare la portata della scomparsa di queste persone ordinarie. fanno parte del futuro, di questa tunisia che si disegna, si schizza sotto i nostri occhi. questo schizzo che tento di rappresentare”.
da lì si era poi spostato al confine con la libia, in un campo di rifugiati, dove era rimasto un mese.
di questo campo aveva così scritto:
“situato a 10 km dal posto di frontiera tunisina-libiana di Ras Jedir e con una capacità d’accoglienza di 15.000 persone, il campo di Choucha è il più grande tra i campi di rifugiati di Ras Jedir. La sua attività è iniziata nel febbraio 2011, a seguito degli avvenimenti occorsi in Libia. è gestito amministrativamente dall’UNCHR. è gestito quotidianamente (cibo, cure, ascolto) da ong (croce rossa, medicins sans frontiers, islamic relief). la sicurezza e la protezione sono assicurati dall’esercito e dalla protezione civile tunisina. i rifugiati sono di nazionalità ivoriana, giordana, guineana, irachena, zambiana, maliana, togolese, camerounense, pakistana, egiziana, algerina, cinese, filippina, bengala, libica, marocchina, sudanese, ganiana, vietnamita, eritrea. tutte queste persone lavoravano n libia. dopo gli avvenimenti, sono fuggiti verso la tunisia e sono stati fermati in questo campo. il ruolo del campo è di proporre un lugo di vita aspettando “una situazione”. nessuno può lasciare il campo, salvo a due condizioni, gestite dall’UNCHR. il rimpatrio nel paese natio (se la situazione è stabile) o ottenere una risposta favorevole per essere accettato in un paese d’accoglienza (se la situazione del paese d’origine non è stabile). queste due procedure amministrative possono avere durate assai diverse. da 10 giorni come una data illimitata.
sono restato nel campo di rifugiati detto “choucha”, alla frontiera libica, durante un mese. giorno e notte. se tutti mi hanno sconsigliato di viverci, sono persuaso che non si possa cogliere la realtà di questi campi se non condividendo il quotidiano con coloro che si sono trovati a finire qui. alcuni ritengono che è coraggioso. altri che è un suicidio. ma basta dormirci una sola notte per comprendere che è assurdo vederci un atto di coraggio, o dell’incoscienza. mi sembra importante sottolineare che alcune delle fotografie prestante qui non sono affatto il compimento di questo percorso. non sono che vaghe e imprecise trascrizione di ciò che è successo in questo campo. il mio approccio è prima di tutto agire sul posto,gli incontri, le discussioni e le amicizie ai miei occhi sono molto più importanti che qualche fotografia. circolando di tenda in tenda, ho passato un mese a disegnare, realizzare ritratti degli abitanti del luogo, coloro che vengono chiamati “rifugiati”. loro si rincouravano, mi incoraggiavano. all’inizio mi è stato difficile capire questo affollamento per il mio percorso. centinaia di domande di ritratti affluivano ogni giorno, me ne sono stupito. poi ho capito. molti me l’hanno confidato: farsi disegnare permette di ritrovare una certa dignità. il disegno esige attenzione e pazienza particolare. per colui che disegna come per colui che è disegnato. col passare dei giorni, dei disegni, delle discussioni accorate, la mia comprensione della situazione è evoluta. mentre i primi incontri finivano in dibattiti sui documenti, sulle carte di rifugiato, sui sogni d’europa e sulle condizioni di vita di questi campi, un’altra tematica è progressivamente emersa. le amicizie si rinsaldavano, il vero soggetto sensibile, il fondo del problema, è finito per uscire: la sofferenza di coloro che non sono più considerati e trattati come umani, perché in non-luoghi. nessun territorio, nessun volto. non mi avventurerò in un’analisi critica delle norme securitarie contemporanee e delle politiche migratorie abiette che infestano in europa. tuttavia, mi sembra che certe evidenze si facciano vedere. la nostra società può ben agitare i termini della pluralità e della diversità culturale, ma non si considera più automaticamente un essere umano come facente parte dell’umanità. zygmunt bauman parla così – a giusto titolo anche se i termini che usa sono molto duri – di “rifiuti umani” per illustrare il trattamento riservato ai migranti. se ho realizzato delle foto, non è per giustificare questo progetto – ho avuto ampiamente alla mia scala, delle reazioni, emozioni, risentimenti, condifenze, che me ne hanno provato la necessità. ritengo semplicemente che è necessario smontare le paure dell’europa abbarriccata, la stessa che distilla questo messaggio di paura: rischiate meno se siete indifferenti, la solidarietà è pericolosa. mentre la solidarietà e l’ospitalità divengono delle nozioni peggiorative, condannabili, sanzionate in francia dalla legge, mi sembra fondamentale fare barriera a questa regressione. per come posso”.
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